La nazione Padana - Autore: Sergio Salvi Sergio Salvi è uno studioso dei movimenti nazionalitari. Tra le
sue opere ricordiamo Le nazioni proibite (Firenze, 1973) dedicato alle
nazioni senza Stato dell’Europa occidentale, Le lingue tagliate
(Milano, 1975) incentrato sulle minoranze linguistiche della repubblica
italiana e Patria e Matria (Firenze, 1978) uno studio sull’applicazione
del principio di nazionalità nell’Europa contemporanea. La nazione padana Sul n.66/67 (1ª serie) di Indipendenza ho letto un articolo di Giulio Silvestri dove si afferma che la Padania, come nazione, non esiste. È sicuramente un’opinione condivisa dalla maggioranza degli italiani, sulla quale convengono e convergono non soltanto Fini e D’Alema ma anche Rauti e Bertinotti. L’opinione contraria sembra avere, al momento, soltanto la sponsorship, per giunta sospetta, di Bossi. Personalmente credo invece che la Padania, come nazione, esista. E mi dispiace che soltanto la Lega Nord sia di questo avviso. Vedrei volentieri una sinistra padana, anche di tipo tradizionale, che contendesse alla Lega il monopolio del padanismo. Anche se non escludo una sua prossima comparsa in tempi anche relativamente brevi, devo constatare che soltanto una ideologia apparentemente di destra fornisce, in questo momento, un supporto politico e culturale ad una realtà che mi appare sempre più inoppugnabile anche per una possibile sinistra al passo coi tempi. Del resto la nazione basca esisteva anche se il suo profeta, Sabino Arana Goiri, era un "reazionario" intinto di razzismo. Hanno creduto poi, ardentemente, nella nazione bretone tanto il "bolscevico" Yann Sohier quanto il filonazista Célestin Lainé. Ma torniamo alle argomentazioni di Silvestri che, per una parte almeno,
sono le stesse di Veltroni e di Gasparri. Ciò appare evidente quando
il collaboratore di Indipendenza ritiene impossibile che "la fantomatica
Padania sia mai stata o possa oggi essere considerata un’entità
nazionale distinta dal resto dell’Italia". La ragione addotta
è "etnica", cioè, in fondo, linguistica: la supposta
mancanza di una lingua propria e di una conseguente rivendicazione ("patrimonio
imprescindibile di tutti i movimenti a base etnica") che caratterizzi
i "nazionalisti" padani (cioè, attualmente, i leghisti).
A parte il fatto che la Lega, ora che è possibile accorgersi di
ciò che bolle nella sua pentola (grazie al quotidiano la Padania
e alla maggior diffusione dei Quaderni padani), è piuttosto impegnata,
sia pure in modo goffo, in rivendicazioni di questo tipo, mi sembra che
gli argomenti a favore dell’esistenza di una lingua padana, sia
pure priva di una forma standard, siano sempre più evidenti (anche
se poco visibili sui mass media, del tutto trascurati dalla scuola dell’obbligo
e pertanto ignoti, o quasi, all’opinione pubblica). È ovvio che la lingua italiana (quella ufficiale dello stato)
appare collegata, storicamente e strutturalmente, soltanto al sistema
dialettale toscano, dal quale gli altri sistemi dialettali divergono in
maniera cospicua così come divergono tra di loro. Durante le recenti
elezioni politiche, un autonomista siciliano ebbe del resto a dichiarare
che se un italiano meridionale dice, nella sua lingua parlata, iu aju
per io ho, un settentrionale direbbe, nella medesima circostanza, mi go:
a prova della radicale diversità fra questi due popoli, perlomeno
come idioma. Questo aneddoto, più politico che linguistico, è
sufficiente a fare intendere una differenza che sarebbe stolto, in questa
sede, esplicare con un elenco esaustivo delle caratteristiche specifiche
dei diversi sistemi linguistici che si spartiscono territorialmente lo
stato italiano. Su questo piano, la Padania ha già battuto l’Occitania,
che pure si è risvegliata un secolo e mezzo fa. I partiti occitanisti
ottengono, nelle elezioni politiche francesi, percentuali da prefisso
telefonico. L’unico partito padanista purtroppo esistente, la Lega
Nord, nella tornata politica del 1996 ha ottenuto, in Padania, più
del 20% dei voti qualificandosi, nel computo proporzionale, come il maggior
partito dell’Italia settentrionale. Dal punto di vista culturale,
l’Occitania appare invece in netto vantaggio sulla Padania. La riflessione
storica, l’attività linguistica e letteraria, l’indagine
accurata della propria identità hanno prodotto, in Occitania, una
serie rilevante di studi ineccepibili e di affermazioni non aprioristiche.
I padanisti appaiono, al confronto, ancora fermi al nastro di partenza,
con l’aggravante di tutta una serie di false partenze che sembrano
segnare itinerari confusi e contraddittori. Ma sono soltanto all’inizio.
L’Occitania appare, tra le comunità nazionali prive di stato
dell’Europa occidentale, come il caso più simile a quello
padano. Padania e Occitania sono infatti le comunità maggiori sia
per territorio sia per numero di abitanti (24.000.000 di padani su 58.000.000
di "italiani"; 15.000.000 di occitani su 56.000.000 di "francesi"):
riconoscerle come nazionalità significa mettere radicalmente in
discussione la liceità e la permanenza di stati che vengono abitualmente
quanto erroneamente considerati "nazionali" (uno di essi, addirittura
come il prototipo dello stato nazionale moderno). La fatica intellettuale
che un riconoscimento di questo tipo costa al cittadino medio di questi
due stati (e lo sconcerto che ne deriva) è sicuramente devastante
e soprattutto superiore a quella relativa al riconoscimento delle abituali
minoranze ormai note. I corsi sono appena 250.000; i valdostani 100.000. La situazione linguistica della Padania è sicuramente peggiore
di quella occitana in quanto non esiste ancora una minima standardizzazione
ortografica tale da segnalare convenzionalmente l’affinità
indubitabile tra i vari dialetti. La scrittura cervellotica con la quale
si presentano i diversi dialetti sembra fatta apposta per celarne l’affinità.
Manca poi, nel nostro paese, il riconoscimento da parte dell’opinione
pubblica (e della maggior parte degli intellettuali) dell’unità
strutturale della lingua padana. Se il parlamento di Roma approvasse una
sua Legge Deixonne, probabilmente non vi parlerebbe nemmeno di lingua
padana ma di "lingue" piemontese, lombarda, emiliana e così
via. È come se la Francia non riconoscesse l’occitano ma
ponendoli sullo stesso piano (e sul piano del corso, del bretone e così
via) parlasse solo di provenzale, di gavotto, di linguadociano, di alverniate,
di limosine e di guascone, ignorando la loro unità di fondo. È
innegabile che l’Occitania gode di un atout di grande peso culturale:
è il paese della lingua d’oc, nella quale si è espressa,
molti secoli fa, una grande stagione della letteratura europea. Se i primi
classificatori degli idiomi neolatini hanno tenuto separato l’occitano
dal francese, nonostante la frammentazione dialettale dell’occitano,
ciò dipende esclusivamente da questa ragione. La Padania non ha
invece espresso, nella sua lingua autoctona, una letteratura paragonabile,
per importanza e per notorietà, a quella dei trovatori. Eppure,
nel XIII secolo, alcuni poeti come Bonvesin da la Riva, Ugo di Perso,
Girardo Patecchio, Uguccione da Lodi, Pietro da Bersagapé, Giacomino
da Verona e altri scrivevano in lingua padana. Afferma in proposito Gerhard
Rohlfs che "in Alta Italia si era sviluppata una koiné padana,
di tipo lombardo-veneto, di ampio uso letterario. Nel corso del Duecento
questa koiné era già sulla via di assurgere a lingua letteraria
nazionale". Di quale nazione? Di quella padana, ovviamente. Poi le
cose sono andate diversamente. La politica e le armi hanno sconfitto la
lingua occitana dei trovatori con la vittoria del francese, nonostante
la sua grande letteratura; così come, con modalità diverse,
hanno sconfitto la lingua padana con la vittoria dell’italiano.
I due popoli hanno bensì continuato a parlare i loro dialetti precipui
ma hanno perso ogni modello di riferimento e l’idea stessa della
loro appartenenza ad un’unica lingua. A volerla dire tutta, dovremmo
segnalare che i dialetti padani sono più vicini ai dialetti occitani
che a quelli considerati tradizionalmente "italiani". Vediamo ora la situazione dello stato italiano, privo di una nazione italiana. La nazione padana, attraverso un suo staterello periferico, ha fatto quello che in Francia è stato fatto dalla nazione francese e dal regno di Francia. Ha infatti colonizzato le altre nazioni presenti sul suo territorio servendosi di una lingua che non era la sua (cioè del toscano). E si è scelta come capitale, non appena le è stato possibile, una città situata fuori dal suo territorio. Ha tuttavia promosso e conservato per sé l’egemonia sociale, economica e culturale sull’intero territorio dello stato (nell’interesse della propria borghesia). È ovvio che, di questo, le classi popolari padane non sono responsabili; le classi dirigenti, sì. Hanno ignorato la Padania e puntato sull’Italia. E qui le analogie tra Padania e Occitania terminano bruscamente. La Francia, che esiste davvero come nazione, ha brutalmente colonizzato, a tutti i livelli, l’Occitania (una volta chiamata Midi, "Mezzogiorno"). La Padania, travestita da Italia (che come nazione non esiste) ha, forse ancora più brutalmente, colonizzato il cosiddetto Mezzogiorno (che sembra non avere trovato ancora un nome nazionale nel quale riconoscersi). Soltanto che alla Padania, ora che ha costruito la propria dimensione economica inserita nel mercato globale, la colonia meridionale comincia a pesare troppo rispetto ai benefici che pure continua a trarne. Il cosiddetto Mezzogiorno, d’altra parte, si è prestato al gioco. Le sue classi dirigenti hanno aderito all’alibi dell’unità nazionale (che in realtà significava "unità statale": di uno stato che poteva esistere soltanto imponendo il sottosviluppo di una sua parte a vantaggio di un’altra parte, quella che è stata la costruttrice dello stato medesimo). Si è verificata, nel tempo, una divisione del lavoro tra le classi dirigenti dei due principali settori del territorio e della società dello stato (cioè delle due nazioni principali). I meridionali, anziché pensare alla liberazione della loro nazione, hanno cominciato a gestire in prima persona (e per "conto terzi") lo stato, collocandosi nell’ambito di una "nazione" presunta, quella italiana, rivelandosi così, in realtà, i dipendenti fedeli di una nazione reale, quella padana, che non era ovviamente la loro. Ne hanno ricevuto, in cambio, benefici personali e di classe. A favore del popolo da cui provenivano (e hanno tradito), dopo i ricorrenti (ed enormi) salassi dell’emigrazione, hanno ottenuto soltanto di ribadire la subordinazione attraverso la pratica dell’assistenzialismo. I settentrionali, nel frattempo, hanno continuato a fare i loro affari, all’ombra dei fedeli gestori meridionali dello stato, fino a quando il peso dell’assistenzialismo non si è rivelato, per alcuni di loro, insopportabile. Soltanto allora questi padani hanno revocato l’appartenenza alla nazione virtuale cui avevano deciso di essere parte ed hanno scoperto la loro vera nazionalità, cominciando addirittura a progettare un proprio stato, questa volta "nazionale" per davvero, da realizzarsi tramite la secessione. Così facendo, hanno però avuto il merito oggettivo (paradossale ma indiscutibile) di innescare la possibile liberazione economica, sociale, "nazionale", della nazione meridionale, che può risollevarsi soltanto prendendo in mano le chiavi del proprio sviluppo, spezzando la logica perversa che ha originato il sottosviluppo ed è la logica dello stato unitario (non più necessario alla nazione dominante, quella padana, ma ancora meno necessario, anzi, nocivo, al popolo meridionale). Questo stato "unitario", seguendo la logica del suo sviluppo, mostra oggi il 5% di disoccupati sul territorio della nazione padana e il 25% sul territorio della nazione meridionale. La Padania, che ha la responsabilità storica di aver fatto l’Italia, si è ora assunta la responsabilità di disfarla. Nel suo interesse ma anche in quello dei meridionali. Anche per chi non crede al "nesso indissolubile lingua-nazione"
la presenza, all’interno dello stesso stato, di almeno due economie
e due società, tra loro contraddittorie e contrastanti, è
un dato di fatto indubitabile. Ma ci sono altre differenze di fondo (di
cultura e di storia) che non possono essere trascurate (e delle quali
la scuola e i mass media non parlano). Ne accennerò soltanto poiché
questa non mi sembra la sede adatta: questo è soltanto un intervento
polemico che vuole ribaltare alcuni luoghi comuni, purtroppo, nel nostro
paese, patrimonio anche della sinistra (tradizionale e non). C’è
una differenza genetica tra Nord, Toscana e Sud che permane dall’epoca
preromana (si leggano gli studi in proposito di Cavalli Sforza e di Piazza);
c’è una differenza storica nella progressiva romanizzazione
del territorio in questo momento appartenente alla repubblica italiana
che vede l’Appennino tosco-emiliano ergersi come confine preciso
e le Alpi occidentali giocare il ruolo di trait-d’union (i dialetti
padani sono più simili a quelli occitani e francesi che non a quelli
toscani e centro-meridionali); c’è uno sviluppo politico-istituzionale
del Nord che con la disgregazione del regno longobardo e poi franco porta
alla nascita dei comuni, profondamente dissimile dal percorso di riaggregazione
del Sud in un regno unitario (il primo stato moderno in Europa), a partire
dai normanni e soprattutto con Federico II (sia pure con ricorrenti divisioni
tra le "due Sicilie"). C’è, infine, una vocazione
mediterranea del Mezzogiorno che contrasta con l’europeismo delle
regioni padane e indica la via di un profondo riscatto di tutti i popoli
meridionali d’Europa. Come si vede, la mia apologia della Padania
è indissolubile da una prospettiva globale di rinascita di quella
nazione proibita (e ancora senza nome: il "Mezzogiorno") dallo
stato italiano e dalle proprie classi dirigenti che può (e deve)
uscire dal baratro dove è stata sospinta dai padani d’antan
e può farlo solo grazie all’"egoismo" dei padani
di oggi.
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