Le ligue della Padania: il Padanese (autore: prof. Geoffrey Hull)

Nell’isolare dal sistema linguistico italiano le parlate ladine, Ascoli lasciò in un limbo terminologico i dialetti che il Biondelli, trent’anni prima, aveva denominato “gallo-italici”.1 Secondo l’illustre dialettologo goriziano, il piemontese, il ligure, il lombardo e l’emiliano-romagnolo “si distaccano dal sistema italiano vero e proprio, ma pur non entrano a far parte di alcun sistema neolatino estraneo all’Italia”.2 Durante i primi decenni dell’unità nazionale i glottologi provarono a definire più chiaramente lo status del “gallo-italico” nei confronti del ladino da un lato e dei dialetti peninsulari dall’altro. In quell’epoca di nazionalismo esasperato era difficile che l’indagine non assumesse toni politici. Parecchi studiosi infatti si sentivano in dovere di dimostrare a priori l’italianità sia del gallo-italico sia del ladino, mentre l’insistenza di altri linguisti (soprattutto germanofoni) sulla fisionomia palesemente galloromanza dei due gruppi non poteva allora non sembrare colorita di pregiudizi antirisorgimentali.3 Che la lingua indigena della Val Padana, regione da considerarsi la pietra angolare dell’unità italiana, potesse risultare dall’analisi strutturalista sorella del francese e solo cugina del toscano era per molti una considerazione tanto intollerabile quanto eretica. Venne dunque canonizzato un sistema di classificazione specificamente italiano e ribadito più dalla tradizione classicista che dal metodo scientifico in base al quale “italiani” (o “italoromanzi”) risultavano quei dialetti che si erano da tempo subordinati al toscano letterario.4 Secondo un tale criterio un dialetto come l’emiliano o il ticinese, che condivide tutte o quasi tutte le caratteristiche fondamentali col francese, poteva definirsi senza tema di errore “italiano”. Per chi non accetta la tesi italianista la denominazione di “gallo-italico”, applicata a vernacoli parlati sì in territorio politicamente italiano ma a nord della nota linea La Spezia-Rimini, rimane inesatta nonché ingannevole. Anche ammettendo l’importanza psicologica dell’orientaniento culturale, è difficile capire come sia possibile dedurre da aspetti secondari (che costituiscono d’altronde solo una patina di “superstrato”) che tale dialetto sia strutturalmente italoromanzo: nessuno si sognerebbe per esempio di definire il còrso dialetto galloromanzo a cagione degli influssi genovesi e poi francesi che lo trasfomano da secoli. Riteniamo dunque sostanzialmente giusto il giudizio dei vari specialisti di glottologia romanza che considerano il cosiddetto “alto-italiano” come parte integrante del sistema galloromanzo e parente stretto del francese (incluso il franco-provenzale) e dell’occitano catalano.5 E diremmo con Pierre Bec che il termine “gallo-italico” va corretto in “galloromanzo cisalpino” o “galloromanzo italiano” (qui “italiano” si intende in senso rigorosamente extralinguistico).

La classificazione spoliticizzata dei dialetti della Padania ha inevitabilmente modificato la concezione del ladino come unità linguistica indipendente dal “ramo padano dell’italoromanzo”. Anche i ladinisti più accaniti hanno potuto trascendere la loro posizione di difesa di una favella che sin dal Medioevo si era sviluppata fuori dalla sfera culturale italiana, col guardare oltre gli italianismi superficiali dei dialetti della pianura. Molti di loro si sono infatti dichiarati aperti alla tesi di un’originaria unità reto-cisalpina, a patto che si rinunci a ogni tentativo di collegare questo sistema all’italiano vero e proprio.6 Si ammette che la “conquista toscana” della Val Padana nel Rinascimento abbia portato a una certa italianizzazione del vernacolo galloromanzo (o potremmo dire, ladino) di questa zona 7, e che sono appunto le aree marginali chiamate più tardi “Ladinia” che conservarono incontaminata (prescindendo da forti influssi tedeschi nei Grigioni e nel Tirolo) l’originaria tradizione linguistica della Padania. Nel 1982 ho presentato una tesi di dottorato di ricerca col titolo inglese di The Linguistic Unity of Northern Italy and Rhaetia in cui ho tentato di delineare lo sviluppo storico e la fisionomia attuale dei dialetti ladini e padani.8 L’ipotizzata unità l’ho ribattezzata “padanese”, coniazione che si vuol riferire alla Padania linguistica anziché geografica (cioè all’anfizona reto-cisalpina) e necessitata dal fatto che l’aggettivo padano indica proprianiente la lingua di solo il bacino del Po.

La Padania: terra gallica nel mondo italico

È risaputo che nella struttura etnica dell’Italia la principale linea divisoria coincide quasi perfettamente con il crinale degli Appennini tosco-erniliani. A nord di questa linea si era stabilita in tempi antichi una popolazione celtica o celtizzata la cui terra fu chiamala Gallia Cisalpina dai Romani che la conquistarono fra il 193 e il 78 a.C. Venti secoli più tardi l’antropologia della Padania è poco cambiata, nonostante la profonda romanizzazione della zona e la seriore affermazione di una civiltà tosco-italiana: razza compattamente brachicefalica anziché mesocefalica o dolicocefalica come nella Penisola; abitazioni popolari di tipo alpino o subalpino anziché mediterraneo; consumo di prodotti bovini anziché ovini e cottura al burro anziché all’olio; canto polifonico, sillabico e narrativo anziché solistico, melismatico e lirico; coscienza linguistica e filosofica tendenzialmente analitica anziché sintetica, e così via.

La suddivisione dell’Italia in due diocesi (con le capitali rispettive a Roma e a Milano) compiuta da Diocleziano nel 298 d.C. non solo mise in rilievo le esistenti differenze etniche e ambientali delle due Italie, ma inserì la Padania pienamente nel nuovo e opulento mondo galloromano che aveva da tempo eclissato Roma e il suo retroterra peninsulare. Ciò è confermato tra l’altro dalla tradizione scolastica latina che si mantenne più salda in Padania che nella Penisola e dal prestigio della chiesa ambrosiana nei cui santuari si celebrava una liturgia di tipo gallicano piuttosto che romano e i cui fedeli erano stati convertiti “freschi” dal paganesimo e non tramite un elemento cristiano greco nella popolazione locale. Si svilupparono quindi nell’Italia continentale dialetti di stampo galloromanzo che non dovevano essere diversi in nessun particolare importante dal proto-francese. Al potente superstrato franco della Francia settentrionale corrisponde in Padania la doppia presenza longobarda e franca. Nel tardo Medioevo si erano diffuse nel Nord le lingue letterarie francese e provenzale che erano così accessibili ai cisalpini da ostacolare, alla vigilia del “miracolo fiorentino”, la formazione di una genuina e duratura koiné padana.9

Se i Longobardi non avessero aggregato la Toscana al loro regno padano è chiaro che sarebbero sorte due nazioni sul territorio dell’italia augustea, così diverse fra di loro come la spagnuola e la francese. Legata politicaniente e culturalmente al Nord, la Toscana, regione “meridionale”, si andò arricchendo di correnti provenienti dalla Gallo-romania. Il suo dialetto, pur conservando la sua struttura italoromanza, s’intrise di elementi padani. Ne risultò una trasformazione fisionomica che consentì al toscano di diventare la perfetta koiné italica e, con l’ascesa dei grandi autori fiorentini, la sola lingua letteraria capace di riunire in un’unica nazione ideale la Padania gallica e le terre toscoitaliche ed elleniche della Penisola e delle Isole. La fiorente civiltà comunale della Padania medioevale è, per altro, inseparabile dal coevo fenomeno toscano. Si era infatti formata una sfera di cultura tosco-padana nella quale Firenze assunse presto il predominio, tant’è vero che quasi l’intera Padania accolse senza esitazioni la civiltà rinascimentale irradiata dalla Toscana, e rinunciò - pare per sempre - a ogni vera ambizione di crearsi una propria lingua letteraria comune radicata nella parlata materna. Nell’ambito di questa moderna Italia la Padania fu destinata a rimanere una provincia di carattere ambiguo: italiana di cultura elevata, ma galloromana nelle sue tradizioni popolari. Solo i futuri Ladini, cioè i “lombardi” delle zone alpine dominate dagli Alemanni e dai Bavaresi, si erano sottratti a questo processo centrifugo.

Oggi i padani si definiscono spontaneamente italiani settentrionali, sentendosi infatti così italiani da poter asserire sciovinisticamente che “l’Italia finisce al Po” o perlomeno “agli Appennini”. Non manca chi ritiene che la stessa nozione di un’etnia padana distinta da quella italiana sia del tutto assurda.10 Può essere anche vero. Nondimeno rimangono saldissimi i tratti distintivi della lingua ereditaria di questi “italiani settentrionali”, la quale, dopo quattordici secoli di simbiosi tosco-padana, si mantiene più galloromana che mai. Diremmo inoltre che la frantumazione dialettale, normalissima in una lingua eteronoma che non è mai stata codificata, non è neppure progredita al punto di alterarne l’unità fondamentale. In questa unità faremmo rientrare, con solo limitate riserve, il friulano, il ladino dolomitico e svizzero, e i dialetti lievemente italianizzati della Liguria, del Veneto e dell’Istria.

Limitazioni di spazio ci permettono di accennare soltanto brevemente ad alcuni dei tratti specifici delle parlate padanesi, di cui intendiamo soprattutto segnalare quegli aspetti che le separano in modo vistoso dai dialetti italiani e che mettono in risalto la loro parentela con le altre varietà del galloromanzo.

Le diverse forme dialettali sono state di proposito ridotte a prototipi retocisalpini raccolti in una grafia unitaria di tipo etimologico e capace di abbracciare ogni variante fonetica.11

Nel vocalismo tonico spicca anzitutto la potenziale dittongazione di tutte le vocali toniche in posizione libera12: i tipi reto-cisalpini mär (növ) concordano pienamente con il francese mer, poil, saveur, miei, neuf, mentre discordano dalle forme mare, pelo, sapore, mele, nove del toscano popolare e dei dialetti metafonizzanti della Penisola stricto sensu.13 Sono caratteristiche di gran parte della Padania i fonemi palatali ü (lat. U) e ö (üo < uo < lat. O); probabili riflessi dell’antico sostrato gallico del paese: nelle zone centrali e occidentali si pronuncia infatti mür, cör, più o meno come in francese (mur, coeur), e tali suoni sono indigeni in Padania e non “stranieri” o “francesi” come credono tanti.14 Il padanese, come il francese, ha sviluppato una serie di vocali nasali toniche, così i tipi paun/pan, serein, bon (bõ), vin (vi) corrispondono al fr. pain, serein, bon, vin. Ma il tratto più importante del vocalismo del padanese quale lingua galloromanza è senz’altro la caduta regolare di tutte le vocali atone finali eccetto -a: camp ‘campo’, part ‘parte’, quist ‘questi’ (ma pòrta, fenèstra).15

Non esiterei ad asserire che ovunque incontriamo in territorio padano forme intere come campo, parte, quisti (cioè in Liguria, nel Veneto, e in parte altrove), si tratta in realtà di influssi peninsulari (italoromanzi) recenti o medioevali.16

Profonde differenze strutturali segnano pure il sistema consonantico del gruppo reto-cisalpino di fronte all’italiano. Oltre allo scempiamento delle doppie (copa ‘coppa’, maza ‘ammazza’) e all’indebolimento delle scempie intervocaliche LATINU > ladin, SECURU > segur, SUDARE > suar, SCALA > scara), sono da notarsi l’ormai rara palatalizzazione spontanea (nell’ovest) o reattiva (nell’est) delle velari (castel, gat, formiga) (7) e tendenze fonetiche quali la soluzione galloromanza dei nessi -ct-, -cs- (-x-) (FACTU > fait, fac, LAXARE > laissar, lašar), la riduzione di -gli- a -j- (fója ‘foglia’, aj ‘aglio’) e la desonorizzazione delle finali (neiv > neif ‘neve’, verd > vert ‘verde’).

I fattori principali della scissione fra i dialetti montani (alpini ed appenninici) da una parte e le parlate della pianura dall’altra sono i medesimi che vengono invocati dagli studiosi favorevoli all’indipendenza del “ladino” (per loro solo il grigionese, il dolomitico e il friulano) dal “padano”. In realtà si tratta delle differenze tra dialetti conservativi o addirittura arcaici e dialetti innovatori (e spesso aperti a potenti influssi italiani). A parte qualche particolarità del vocalismo tonico (ad es. resti dell’antica metafonia galloromanza nella Ladinia occidentale e centrale e in Romagna, e le dittongazioni spontanee del friulano) osserviamo nella fisionomia delle varietà periferiche del padanese una forte resistenza a quelle assimilazioni di fonemi consonantici che in pianura hanno portato tra l’altro all’assimilazione di c, g (ciel > tsiel > siel, gent > dzent > zent), alla mutazione di g, š, ž, ts, dz (ga > ga > dza > za ‘già’, peš > pes ‘pesce’, bažar > bazar ‘baciare’, tsapa > sapa ‘zappa’, mèdza > mèza ‘mezza’), al ripristino di -d- (dal lat. -D-: crua > cruda) e alla palatalizzazione dei gruppi pl, bl, fi, cl, gi (blanc > bianc, clav > ciav = cav).

Perduta in vaste aree della bassa Padania è anche la -s finale, un tempo normale in forme sostantivali e verbali: las casas / les cases > la casa / le case, tu tires > tu tir(e), egl mòrts ‘i morti’ > i mòrt.18

Segnaliamo qualche altra caratteristica della morfosintassi del retocisalpino nella quale sussistono tuttora tutti i più importanti elementi e tendenze del galloromanzo comune. Nei dialetti più genuini gli aggettivi ubbidiscono a un unico modello, come avviene in francese, ad es. un om fòrt ~ una femna fòrta ‘un homme fort ~ une femme forte’. Pure obbligatorio è l’uso del soggetto pronominale con le forme finite del verbo: eu vuogl ‘voglio’, tu dis ‘dici’, ieu eu vegn (in pianura mi eu vegn) ‘io vengo’: si confrontino i costrutti francesi je veux, tu dis, moi je viens. Le parlate cisalpine aggiungono volentieri questo pronome a quello relativo (tipo la tousa che (el) la canta ‘la ragazza che canta’). Il tipo di costrutto om va (=francese on va ‘si va’), una volta alquanto diffuso in territorio cisalpino, ha soppiantato nei dialetti della Lombardia orientale le forme di quarta persona del verbo: lom. em porta = portem ‘portiamo’ (cfr. on porte = nous portons nel francese popolare). Un’altra caratteristica condivisa con il francese è l’uso dell’atono eu (< EGO) alla quarta (e alla quinta) persona del verbo: eu rivem = j’arrivons (forma dialettale per ‘nous arrivons’). In quasi tutta la sezione cisalpina dell’anfizona si notano sostituzioni di certi pronomi personali, cioè lui rimpiazza él tonico, e similmente élla cede a liei, éls, éllas / élles > lour ‘loro’, ieu > mi ‘io’, tu > ti ‘tu’, mei > mi ‘me’, tei-ti ‘te’, gli > ghe ‘gli, le’. Interessante la presenza, sia in padanese che in francese, di un pronome impersonale, probabile relitto (calcato) del superstrato germanico, ad es. el me par ‘mi pare’, el coventa partir ‘bisogna partire’ (cfr. il me parait, il faut partir).

Un aspetto del verbo padanese che è arrivato a investire la sintassi dell’italiano del Nord è la sostituzione del perfetto col passato remoto il quale sopravvive però come tempo letterario e persiste in qualche vernacolo emiliano-romagnolo. L’italiano regionale offre anche frequenti riflessi di altri tratti della sintassi indigena: alludiamo ai costrutti èsser drieu a + infinito per indicare azioni continue (l’es drieu a seriver ‘sta scrivendo’, cfr. in qualche dialetto francese il tipo il est après d’écrire); alla negazione dell’imperativo mediante il verbo star (no star a cridar ‘non gridare’); all’uso obbligatorio di un avverbio rafforzativo nelle espressioni negative (el (no) parla miga ‘il ne parle pas/(mie)’, tu (no) dormes brixa / (bric, nient, pa ecc.) ‘tu ne dors pas’); e all’analogo rafforzamento dei dimostrativi (questa cadriega qui ‘cette chaise-ci’, quel prieved li ‘ce prêtre-là’).

Fra i pronomi indefiniti, gli avverbi, le preposizioni e le congiunzioni si rivelano numerose le formazioni prettamente padanesi come negun ‘nessuno’, nuglia, negot(a) ‘niente’, vergot(a), alc, alchet ‘qualcosa’, medem ‘stesso’, minca ‘ogni’, massa ‘troppo’, avonda, assai ‘abbastanza’. nomai ‘soltanto’, just(a) ‘appena, appunto’, debon, dessèn ‘davvero’, cour(a) ‘quando’, encuoi (uoi, oz) ‘oggi’, ancamò, amò ‘ancora’, drieu, davors ‘dietro; dopo’, despuoi ‘da allora’ (fr. depuis). Notevolissimo il fenomeno de ‘verbo localizzato’, di ispirazione germanica, ad es. star sus ‘alzarsi’, meter sus ‘erigere’, trasios ‘demolire‘.

La maggior parte del vocabolario comune dei dialetti reto-cisalpini consiste di termini romanzi e latini che si trovano in tutte le lingue neolatine dell’Europa occidentale e centrale. Assai più ristretti numericamente sono i relitti dei sostrati gallico e pregallico e gli apporti lessicali del superstrato germanico dell’alto Medioevo. Imponente invece è l’influsso dei recenti superstrati e adstrati sui diversi dialetti padanesi, soprattutto l’elemento italiano nel lessico del padano (incluso il friulano) e l’elemento alto-tedesco e tedesco moderno nel ladino grigionese e dolomitico. Vistosi, seppur meno importanti, sono i prestiti francesi e occitanici in piemontese. Quello che ci interessa in modo particolare è però il lessico tipico del padanese concepito come unità linguistica.

Molto significative sono le numerose voci che confermano la stretta parentela fra il padanese e le altre lingue galloromanze, ad es. àmeda ‘zia’ (fr. tante), av ‘nonno’ (fr. aïeul), cadriega ‘sedia’ (fr. chaise), fat ‘insipido’ (fr. fade), feida ‘pecora’ (occ. feda), got ‘bicchiere’ (occ. got, fr. godet), empremudar ‘prendere a prestito’ (fr. emprunter), maxon (fr. maison), mogliar ‘bagnare’ (fr. mouiller), mocar ‘spegnere’ (fr. moucher), menton ‘mento’ (fr. menton), meisson ‘messe’ (fr. moisson), mica ‘pagnotta’ (fr. miche), nèza ‘nipote, f.’ (fr. nièce), paveglion ‘farfalla’ (fr. pavillon, papillon), plorar, plurar ‘piangere’ (fr. pleurer), saxon ‘stagione’ (fr. saison). Un numero discreto di vocaboli troppo antichi per potersi definire prestiti dall’italiano sono in compenso testimonianza della secolare orientazione meridionale della Padania, ad es. bevolc ‘bifolco’, cadin ‘catino’, descedar ‘destare’, grem ‘grembo’, ledam ‘letame’, menestra, mescedar ‘mescitare’, miz / niz ‘mézzo’, massaira ‘massaia’, piegora, spuzar ‘puzzare’, regordar ‘ricordare’, refudar ‘rifiutare’, roncar, seron ‘siero’. Nessuna di queste voci si riscontra nel galloromanzo transalpino.

Abbiamo poi un’abbondanza di vocaboli padanesi che non sono sempre collegabili a lessemi francesi e occitanici, ma che contrastano tuttavia con l’uso lessicale della Toscana e della Penisola in generale. Formano così parte del lessico padanese ‘classico’: barba (m.) ‘zio’, barbix ‘baffi’, biàdeg ‘nipotino’, hboleid ‘fungo’, bugnon ‘fignolo’, calegair ‘calzolaio’, calzair ‘scarpa’, çanc ‘sinistro’, catar ‘trovare; raccogliere’, cegaira ‘nebbia’, cioc ‘ubriaco’, cocombre ‘cetriolo’, compagn ‘simile’, covatar ‘nascondere, coprire’, coveida ‘brama’, cop ‘tegolo’, cosp ‘zoccolo’, (em)pizar ‘accendere’, fallar ‘sbagliare’, forcellina (piron) ‘forchetta’, formenton ‘granturco’, franc ‘lira’, geld ‘frigido’, gnec ‘malaticcio’, liguoir ‘ramarro’, luxour ‘splendore’, marangon ‘falegname’, molleta ‘arrotino’, muola ‘macina’, padimar ‘consolare’, presça ‘fretta’, rampin ‘gancio’, rauba ‘cosa’, ladin ‘sciolto’, ninzar ‘intaccare, scolpire’, lugànega ‘salsiccia’, pander ‘annunciare’, rexentar ‘sciaquare’, sabla, sablon ‘rena’, sangueta ‘mignatta’, segar ‘falciare’, sarir ‘sarchiare’, sopressar ‘stirare’, tòc ‘pezzo’, tomàtes ‘pomodoro’, travonder ‘inghiottire’, tuoisseg ‘veleno’, zivolar (sublar) ‘fischiare’.

 


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