L’unità lessicale del padanese, come quella di qualsiasi lingua frantumata, è naturalmente relativa. Per un gran numero di concetti i dialetti occidentali presentano una voce sconosciuta in quelli orientali, e viceversa. Nella seguente lista di doppioni il primo termine è sempre quello occidentale: bigat / cavalier ‘baco da seta’, brèn, crusca / sémola, rémol(a) ‘crusca’, càmola / tarma ‘tigna’, ferrair / favre ‘fabbro’, gudaz, padrin / sàntol ‘padrino’ (tosc. compare), lassair / lagar ‘lasciare’, lavandin / seglair ‘acquaio’, mascherpa / poïna ‘ricotta’, ninçuola / noxella ‘nocciuola’, pigliar / tuor ‘prendere’, senestre / çanc ‘sinistro’, solair / granair ‘soffitta’, tiret / casset ‘cassetto’. Un’altra importante divisione lessematica contrasta l’uso cisalpino con quello retico (e con quest’ultimo concorda talvolta anche il ladino delle Dolomiti). Al retico baselga corrisponde il cisalpino gliesia ‘chiesa’, e così anche caxuol / formàdeg, formaj ‘cacio, formaggio’, clauder / serrar ‘chiudere’, còcen / ross ‘rosso’, coudex / libre ‘libro’, èdema / setema(u)na ‘settimana’, figliol / figlioç ‘figlioccio’, folin / calijen ‘fuliggine’, jentar / disnar ‘pranzare’, lisura / jointura ‘congiuntura’, meil / pom ‘mela’, meisa / taula ‘tavola’, mur / rat, pondeg, sourex ‘topo’, neir / negre ‘nero’, saglir / saultar ‘saltare’, solegl / soul ‘sole’, tema / pavoira ‘paura’, zevrar / deslaitar, desierar ‘divezzare’ (cf. il fr. sevrer). Conclusione Ammessa la fondamentale unità delle parlate reto-cisalpine si pone la questione della loro unificazione. Il sistema di trascrizione che abbiamo elaborato sul fondamento delle caratteristiche comuni del gruppo costituisce una base formale capace di servire non solo da spunto per una riforma (o sistemazione) ortografica dei singoli dialetti padanesi, ma si presta anche come codice in cui registrare il ricchissimo ma mai radunato tesoro lessicale della lingua. Anche chi dubita del valore di una sintetica koiné padanese destinata a concorrere anacronisticamente con l’italiano pan-padano, non potrà smentire l’auspicabilità, sia pure solo come compito scientifico, di un equivalente cisalpino del Tresor dòu Felibrige e dei dizionari pan-occitanici compilati nei decenni recenti. Allo scopo di illustrare la fattibilità dell’unificazione ortografica — il primo passo verso la creazione di una koiné reto-cisalpina — presentiamo sotto otto branetti tolti da vari autori dialettali, tutti ridotti alla nostra comune “grafia padanese” e paragonati con l’attuale grafia regionale: 1. Piemontese 2. Lombardo occidentale (milanese) 3. Ligure (genovese) 4. Romagnolo 5. Veneto (feltrino rustico) 6. Friulano 7. Ladino dolomitico (gardenese) 8. Ladino retico (alto engadinese) Varianti unificabili di un’unica lingua, o tante piccole lingue. È la discussione delle caratteristiche ideali dell’auspicata ‘lingua padanese’ (e le scelte arbitrarie che tale lavoro di sintesi richiederebbe): la affidiamo al futuro e alla volontà collettiva degli eredi del patrimonio linguistico che accomuna i popoli dell’Italia settentrionale e della Svizzera meridionale. Intanto, per terminare il presente discorso, do un breve campione del linguaggio sintetico in cui ho tradotto il Vangelo di San Marco. Sono stati adoperati, oltre la grafia unificata, un consonantismo conservativo, un vocalismo evoluto più o meno simile a quello che sta alla base del milanese, una morfosintassi “cisalpina” ispirata al friulano, e un lessico volutamente panpadanese. Ecco i primi undici versetti del primo capitolo: El Vangeli De Saint Marc tradoit en lengua padaneisa Capitol prim Ent quel dis Jesus rivà de Nazaret de Galilea e vans batejau de Joan ent el Jordaun. E pròpi co ch’el vegniva fuor de l’aigua, el ciel se dervi e om vit a vegnir jos souvra de lui el Spirit Saint en forma d’una colomba. E una voux rivà del ciel dixend: “Tu ses el mieu Figl amau, en tei eu hai el mieu plaxeir”. Geoffrey Hull Tirau fuora de “Etnie” nùmers 13 e 14 (1987-1988).
2 G.I. Ascoli, “L’Italia dialettale”, AGI VIII (1882), p. 103. Da notarsi che l’Ascoli escluse dal gruppo gallo-italico i dialetti veneti i quali considerava più affini al toscano. 3 Le argomentazioni a favore dell’italianità del ladino e del gallo-italico, tesi formulata e sostenuta da Carlo Salvioni, furono riassunte alla vigilia della seconda guerra mondiale da Carlo Battisti in Storia della ‘Questione Ladina’, Firenze, Le Monnier, 1937. Si veda anche G.B. Pellegrini “A proposito di ‘ladino’ e ‘Ladini’” in Saggi sul ladino dolomitico e sul friulano, Bari, Adriatica, 1972, pp. 96-130. 4 È indicativa l’affermazione di G.B. Pellegrini nel suo saggio “I cinque misteri dell’italo-romanzo”: “…con ‘italo-romanzo’ alludo alle varie parlate della penisola e delle Isole che hanno scelto, già da tempo, come ‘lingua guida’ l’italiano” (Saggi di linguistica italiana, Torino, Boringhieri, 1975, pp.56-7). 5 Scrive l’occitanista Pierre Bec: “Ad un tempo innovatore e arcaizzante di fronte al gallo-italico, il reto-friulano dev’essere ad ogni modo integrato all’insieme tipologico galloromanzo italiano o cisalpino, del quale costituisce… un’area marginale e conservatrice”. (Manuel pratique de philologie romane, Paris, Picard, 1970-71, vol. II, p. 316). 6 Significative le concessioni condizionali del ladinista Lois Craffonara: “…anche se si potesse un giorno provare conclusivamente una anteriore ladinità dell’antica Venezia e delle zone contigue che oggi appartengono senza dubbio all’italo-romanzo [per noi il veneto è bensì un dialetto padano italianizzato], non esiste tuttavia nessun motivo per considerare i dialetti della Sella e del Friuli come dialetti periferici del sistema italiano, poiché resta incontrovertibile il fatto che la vecchia Padania apparteneva alla Galloromania. Quindi i nostri dialetti rimangono - anche nel caso di un’eventuale dimostrazione dell’origiaria ladinità della zona veneta - relitti di una romanità un tempo più estesa ma distinta da quella italiana”. (“Zur Stellung der Sellamundarten in romanischen Sprachraum” in Ladinia. Sföi cultural dal Ladins dles Dolomites, I (1977), pp. 73-120). Lo svizzero Andrea Schorta ha concepito addirittura una maggiore unità ‘Ladino-cisalpina’ (“Il rumantsch-grischun sco favella neolatina”, Annales da la Società Retorumantscha, LXXII (1959), pp, 44 63), e il suo connazionale Heinrich Schmid afferma del pari che: “quei tratti che il retoromancio condivide con la zona alto-italiana (…) appartengono quasi senza eccezione alla comune base del romanzo occidentale la quale indica appunto il carattere non-italiano di tutti questi dialetti”. (“Über Randgebiete und Sprachgrenzen”, Vox Romanica, XV (1956), pp. 79-80). 7 L’italianizzazione della Liguria e del Veneto (evidente anzitutto nel ripristino del vocalismo atono finale) era iniziata invece già nell’alto Medioevo come conseguenza di contatti marittimi e mercantili con la Penisola. 8 Tesi di Ph.D. inedita, Università di Sydney, 1982, 2 volumi. 9 V.G. Devoto, Il linguaggio d’Italia, Milano, Rizzoli, 1974, pp. 239-239. La cosiddetta (e in realtà poco unitaria) koiné padana di quest’epoca fu, come il vernacolo veneto contemporaneo, un idioma italianeggiante anziché compiutamente galloromanzo. 10 Per Sergio Salvi l’idea è più anacronistica che assurda. Ne scrive a proposito in Le lingue tagliate (Milano, Rizzoli, 1975): “Se da un lato è indubbio che i tratti caratteristici dei dialetti alto-italiani sono abbastanza smili fra di loro e divergono notevolmente tanto dall’italiano ufficiale quanto dai dialetti del centro e del sud della penisola…, da altro lato ci pare che l’“italianizzazione” del territorio alto-italiano (e delle sue parlate) sia in una fase davvero avanzata, irrimediabilmente segnata, poi, dalla massiccia immigrazione di italiani del centro e, soprattutto, del meridione. Piemonte e Lombardia… sono, probabilmente, irrecuperabili alla parlata materna. Quelli dell’ALP [Movimento Autonomista Libera Padania] cercano di aggirare l’ostacolo puntando sulle smilze aree deprese ed marginate che contornano le grandi oasi del benessere (ormai convertite alla lingua di stato…): ma ci sembra che puntino su di un cavallo tanto nobile quanto zoppo. Il “padano”, del resto, è al di là da da venire anche nelle aree alto-italiane “all’estero” (Ticino, Grigioni italiani, Istria) dove la popolazione difende la propria identità adottando (a torto o a ragione) proprio l’italiano ufficiale” (pp 84-85, n. 9). 11 Abbiamo adattato al padanese comune (prototipico) la grafia vocalica dell’occitanico moderno, nella quale e, o rappresentano sempre vocali chiuse (e,o) e le vocali aperte (e,o) portano regolarmente l’accento grave: è,ò. Il padanese occidentale e centrale concorda con la lettura occitanica di u come (ü). Quanto alle consonanti ci siamo attenuti alla tradizionale ortografia italiana (creazione non meno padana che toscana) salvo nei seguenti casi. I digrafi italiani ci, gi rappresentano [ts] [dz] unicamente in parole di origine non-padanese e quando indicano le varianti palatalizzate di cl, gl: altrimenti si adoperano i grafemi gallo-romanzi (e tanto più adatti al sistema fonematico padanese) ç (= ci), j (= gi), e pure sc (= sci). In posizione intervocalica e finale la sorda scempia [s] si distingue dalla s sonora con la grafia ss (messa, pass). Le geminate ll, rr, nn del proto-padanese si scrivono sempre eccetto in posizione intervocalica (rrat > rat, torr > tor, ma tèrra); tuttavia mm viene rappresentata regolarmente dalla grafia m, giustificata dal fatto che la distinzione mm ~ m andò completamente perduta in Padania mentre si continuava a lungo a contrastare foneticamente nn ~ n ecc. Le velari [k] [g] in fin di parola si scrivono -c,-g (e non -ch, -gh giacché disponiamo dei grafemi opposti -ç, -j) e il grafema x tipico dell’antico padano e del ligure moderno (nonché del veneziano xe!) corrisponde sempre agli esiti di -c-, -si- (e talvolta -li-). 12 Nelle zone periferiche persistono tracce delle condizioni metafoniche un tempo normali nel gallo-romanzo. 13 Il consueto riferimento all’intera Italia come ‘la Penisola’ è naturalmente inesatto: dal punto di visita geografico occorre distinguere nettamente fra l’Italia continentale (cioè la Val Padana con la costiera ligure e l’Istria) e la vera Italia peninsulare che ha come limite settentrionale la Toscana. 14 È più che verosimile che in passato sia il Veneto che la Romagna abbiano conosciuto ü; quanto al friulano e all’istriano (in cui gli indizi linguistici sembrano del tutto mancanti) è forse significativo il fatto che il sistema vocalico del confinante dalmatico abbia contenuto un tempo un ü senza dubbio trasmessogli dal padano (cfr. col < cül < CULU). 15 Quando però la caduta delle finali risulta difficile riappare una vocale d’appoggio che trascriviamo -e, ma che si può pronunciare a seconda dei dialetti -i, -o (-u) e persino -a: MACRU > *magr > magre (magri, magro, magra). È inoltre diffusa la variante magar nella quale si è verificata una retrazione della vocale d’appoggio di un tipo anteriore *magra. 16 Ne fanno prova ad esempio i testi veneziani antichi in cui l’apocope è ancora frequente, e le numerosissime false regressioni del ligure presenti in modo particolare nelle parlate liguri orientali che confinano col toscano. La questione del ripristino delle finali cadute è trattata nella mia tesi (cit. a n. 8. prima parte), a § 51. 17 Le velari [k] [g] assunsero un colorito mediopalatale (c, g) nel gallo-romanzo cisalpino. È probabile che Milano fosse l’epicentro del fenomeno. Lo si riscontra ancora nei dialetti retici e lombardi alpini (e ne rimane qualche spia nel padanese di Sicilia), ma sono ormai rare le parlate che presentano c, g in ogni posizione (si pensi al dialetto valtellinese di Tresivio). Nella maggior parte di questo territorio le palatali c, g concorrono oggi con le varianti regressive k, g, tipi camp, costa, crepa, vaca, sac > camp, vaca ~còsta, crepa, sac; formigra, fuog > formiga, magra, fuog. Nella Padania nord-orientale si realizzò indipendentemente nel tardo Medioevo una palatalizzazione condizionata di k,g legata alla semplificazione di qu, gu dinanzi ad a (quand > cant: cant < cant, agua > aga, paga > paga). Tutti e due i fenomeni vanno rigorosamente distinti dal simile sviluppo del francese. 18 Nell’alto Medioevo il padanese, come l’antico francese e l’antico occitanico, disponeva di una declinazione a due casi (nominativo e accusativo). Con il crollo di questo sistema bicasuale si generalizzarono in linea di massima le forme accusative (oblique) al singolare (tipi mòrt, caval), mentre al plurale maschile le due varianti lottarono a lungo. I dialetti gallo-italici e veneti vennero a preferire i plurali nominativi (mòrt(i), cavagl), il romancio e l’engadinese quelli accusativi (mòrts, cavals), ma il ladino dolomitico e il friulano scelsero una soluzione di compromesso (cfr. il fri. muarts ~ cavai). 19 Nino Autelli, La cros ëd ramuliva. 20 Tommaso Grossi, La fuggitiva (poesia). 21 Aldo Acquarone, Creuze de Zena (poesia). 22 Tonino Guerra, La cuntrèda (poesia). 23 Paolo Segato, Come che l’à fat Met a catarse na femena. 24 Aurelio Cantoni, Une peraule! 25 Elsa Runggaldier, Lecurdanzes de l’ava. 26 Selina Chönz, Il retuorn.
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